l’Italia non sa spendere i fondi europei. L’ultima relazione annuale della Corte dei Conti europea sull’esecuzione del bilancio Ue parla chiaro: la nostra penisola è ancora incapace di sciogliere il nodo cronico dell’assorbimento dei fondi pubblici, scivolando anche per il settennato 2014-2020, tra le posizioni più basse della graduatoria stilata dai revisori.

Il Paese non ha speso 25 miliardi e 166 milioni di euro

Dei 72 miliardi a noi destinati, nello scorso ciclo programmatico, soltanto il 44% dei fondi risulta allocato, un tesoretto che è andato sprecato e che finisce col finanziarie l’innovazione e le imprese dei Paesi più virtuosi. Un problema che, mai come adesso, diventa centrale poiché mette a rischio 191,5 miliardi di euro destinati all’Italia dal dispositivo Next Generation Eu. Le regole europee in materia sono infatti ferree: se la parte di risorse impegnate non sarà spesa entro i tempi stabiliti, sarà automaticamente disimpegnata e, quindi, tolta dalla disponibilità delle amministrazioni titolari.

Un meccanismo che rischia di squalificarci in partenza

«l’Italia è molto indietro! La retorica del “non ci sono aiuti” si scontra con il tasso di successo di enti e imprese italiane ai progetti europei, mediamente inferiore a quello di altri Paesi» spiega Thomas Candeago, ingegnere gestionale con quindici anni di esperienza nella finanza agevolata, autore del best seller “Crescere e innovare a costo zero (o quasi)”, una guida alle opportunità di finanziamento disponibile su Amazon. 

«Siamo di fronte a una situazione paradossale, se da un lato infatti i dati raccolti dalla Banca Mondiale ci dicono che l’Italia è il secondo Paese al mondo più caro per fare impresa, dall’altro lato, abbiamo una serie di misure agevolative che possono portare quasi a zero i costi di avviamento e crescita, ma non le utilizziamo». 

Per quale motivo? E quanto ci costa questa mancanza? «È un problema di ordine culturale. Ci troviamo di fronte a un panorama imprenditoriale scarsamente edotto su quelli che sono gli incentivi fiscali pubblici, imprinting che il più delle volte manca anche presso i giovani neolaureati in materie economiche e aziendali. Esistono molti modi per trovare i soldi necessari a finanziare progetti di investimento e innovazione, eppure, il 73% delle PMI crede ancora che il partner ideale, per supportare progetti di crescita, sia la banca. Nulla di più sbagliato per due ordini di motivi.

Primo, perché questo comporta un indebolimento del sistema economico “Paese” con realtà tendenzialmente sottocapitalizzate e sovraindebitate.

Secondo, non esistono soldi pubblici ma solo soldi dei contribuenti. In questo modo finiamo col versare, nelle casse della Comunità, più contributi di quelli che Enti e imprese nostrane siano realmente in grado di acquisire. In pratica, finanziamo il progresso e l’innovazione degli altri stati membri e diminuiamo la nostra competitività complessiva».

Qual è il “trick” giusto? Cosa fanno gli altri Paesi che noi non facciamo? «L’Europa ha sviluppato negli anni un forte commitment. I Paesi europei realizzano progetti a prescindere dall’incentivo, hanno molta più cultura di rete e capacità di dialogo in lingua inglese. Nelle nostre PMI non c’è nessuno che parli molto bene l’inglese, specie l’imprenditore, che non è in grado di sostenere un colloquio a Bruxelles. Non siamo avvezzi a lavorare con le università e, allo stesso tempo, queste ultime non sanno stare ai tempi delle imprese. Puntano alla ricerca di base, mentre l’imprenditore ha finalità e un “timing” diverso, ed è qui che avviene lo scontro! In più, siamo gelosi del nostro know how e poco inclini alla collaborazione, dimenticando che il boost più potente per crescere sono le persone. Queste, in sintesi, le combinazioni esplosive che ci fanno perdere il confronto».

Inutile elencare le ragioni per cui è importante sviluppare cultura d’impresa. Ma se non ho i soldi per partire cosa devo fare? Tra quali finanziamenti devo guardare? «Il primo step per ottenere il massimo in fatto di incentivi pubblici è attivare il consulente adatto. Un esperto o un team, dalle competenze multidisciplinari, che sappia intercettare e combinare le misure giuste e minimizzare gli errori. Detto questo, bisogna guardare sicuramente alla finanza agevolata che consente di reperire liquidità a condizioni migliori rispetto a quelle di mercato, con incentivi spesso a fondo perduto, e a tutti quegli strumenti come il crowdfunding o il work for equity dedicati alle startup innovative».

‘Innovazione’, parola inflazionata e spesso usata alla cieca. Cosa vuol dire davvero innovare? Come ci si riesce? «Fare impresa è come fare un viaggio, la cosa più importante di un viaggio è la preparazione. Senza quest’ultima ci si fa male, non siamo più negli anni ’60: oggi ogni euro speso male è perso due volte. Chi vuole fare impresa deve, quindi, fare ricerca e studiare. Capire lo stato di maturità del mercato e introdurre una novità radicale nel prodotto, nel processo o nel modello di business. È così che si innova: uscendo fuori dai percorsi già tracciati».

Puoi spiegarci meglio, magari con qualche esempio? «Le innovazioni che non funzionano sono quelle “incrementali”, che portano solo piccole migliorie a soluzioni, processi o prodotti già sviluppati da altri. Questo genere di innovazioni sono valide solo per le aziende mature che devono mantenere efficienza e competitività sul mercato, ma un’azienda che vuole entrare in un mercato dove gli altri player ci sono da anni deve fare di più! Deve puntare alla nascita di mercati e bisogni ancora inesistenti. È quello che ha fatto Ikea, che ha vinto su tutti cambiando completamente modello di business. In passato, da nessuna parte potevi scegliere tra mille sedie, metterle nel carrello, andare via e montarle a casa. Il colosso svedese ha vinto così».

Quali sono i settori su cui puntare oggi? Dove orienteresti i giovani che vogliono fare impresa? «Abbiamo un Paese che offre diverse alternative. Alcune non sono per tutti perché richiedono grosse competenze verticali, altre invece vanno assolutamente rilanciate».

Quali? «Penso, per esempio, a tutte quelle attività che hanno una forte componente artigianale che non devono temere la concorrenza dei paesi a basso costo. Dobbiamo tornare a realizzare prodotti di nicchia, con materie prime di eccellenza, manodopera qualificata e vera filiera made in Italy. Le nostre aziende hanno potenzialità immense, ma coprono solo i 2/3 della richiesta di prodotti italiani all’estero. Queste attività, combinate al giusto marketing e alla capacità di comunicare con i mercati internazionali, sono quelle su cui puntare. C’è poi un bacino enorme di aziende di piccola dimensione, da rilevare a costi contenuti, che non hanno una seconda generazione e aspettano di essere innovate. I ragazzi potrebbero cominciare da qui, poi, una volta capito “come si fa” il business arriva da sé ed è più facile replicarlo per altre imprese».

Tornando alla finanza agevolata. Se ne parla poco e male: per quale motivo uno strumento così importante è così mal comunicato? «Per varie ragioni, pur essendo un asset strategico per tutte le PMI – e non solo -, viene spesso utilizzato come proclama politico senza spiegarne gli iter macchinosi. L’informazione generalista, dal canto suo, ripete gli stessi slogan senza approfondire la norma. Da qui l’idea sbagliata e comune della regalia pubblica».

Il libro da leggere quando si avvia una startup o si vuole crescere

Per concludere, perché e per chi hai scritto questo manuale (nella foto) dedicato alla finanza agevolata? «Per tutti i motivi che ci siamo detti. Perché prendere consapevolezza di questi temi è il primo vero passo per competere con il resto del mondo. Perché non è possibile che, in un periodo come questo, non si sfruttino al meglio tutte le opportunità che ci sono. Per i giovani, soprattutto, spero si appassionino alla materia: il timing ideale è questo!».