Rimanere immobili non ci aiuterà. Bisogna trovare il coraggio di non aspettare soltanto che finisca, ma guardare oltre e dentro il proprio business per capire quali errori sono stati commessi e come superarli con idee fresche da mettere sul mercato.

Occorrono soluzioni, proposte, azioni e soprattutto un cambio di mentalità! La crisi strutturale del retail italiano – e adesso anche quella del settore hospitality -, era già avvertita da diversi anni e il Covid, secondo gli esperti, non ha fatto altro che accelerare un processo che, già da tempo, ci suggeriva di muoverci verso nuovi modelli di organizzazione e gestione di impresa.

A breve ci toccherà riprogettare. Ripensare nuovi modi di vivere gli spazi, fruire prodotti e servizi, con soluzioni innovative e ottimizzate. E di alternative pratiche si sta occupando l’architettura e il mondo del design che, in questo momento, ricoprono un ruolo centrale per la rivisitazione delle nostre vite.

Proprio di soluzioni abbiamo parlato con l’architetto fasanese, di adozione milanese, Graziana Calabrese, esperta in Horeca design e luxury retails e autrice di particolari progetti per Ferragamo, Dodo, Pasquale Bruni, oltre che di format food e ristoranti in tutto il mondo, per dare delle linee guida a chi in questo momento è disposto a investire ma è frenato da un clima di incertezza.

Che tipo di risposte possiamo dare a chi vuol fare business? Che cosa occorrerà per rimettersi in gioco dopo la crisi? Abbiamo tirato le somme con chi, già dalla scorsa estate, supporta il settore in difficoltà con un progetto chiamato Re-Start e una community online che si raduna intorno al sito architips.it.

Cominciamo facendo la tua conoscenza. Inizi questo lavoro dieci anni fa presso vari studi rinomati come stagista sottopagata, un po’ come tutti. Come sei riuscita a farti brillantemente largo in questo ambiente? A lavorare per grandi catene e brand internazionali realizzando lavori in tutto il mondo?

«Selezionando accuratamente gli studi in cui fare esperienze. Quando ho iniziato la mia gavetta a Firenze, dove mi sono laureata, ho preferito indirizzarmi presso professionisti che mi avrebbero lasciato la formazione adeguata per il tipo di posizionamento che desideravo. Realizzavamo negozi per clienti come Ferragamo e ville decisamente importanti. Ho intrecciato diverse esperienze e ne ho fatto tesoro. Poi il passaggio è avvenuto gradualmente quando mi sono sentita pronta. Ho deciso di mettermi in proprio nel momento in cui, in maniera del tutto fortuita, sono arrivate le prime richieste. Da Firenze mi sono spostata a Milano e qui è nato il primo progetto con un cliente che già frequentava un mio vecchio studio. Stava per aprire un mega ristorante in Duomo, da lì è stato tutto in discesa e sono partite una serie di collaborazioni».

In questo periodo ti sei fatta portatrice di soluzioni per supportare l’imprenditoria in difficoltà presentando un progetto che porta il nome di Horeca week – che ha chiamato a raccolta più di 40 esperti -, dal quale sono nate delle linea guida. Riusciresti a farci un sunto di questa iniziativa?

«Innanzitutto c’è da dire che c’era già un problema molto prima che la pandemia ci travolgesse e che il Covid ci ha posti soltanto con largo anticipo di fronte alla scelta “aggiornarsi o rimanere indietro?”. Ci ritroviamo con hotel, negozi e ristoranti, spesso a gestione familiare, dove non si ottimizzano i costi, si perde redditività, non esiste un’immagine riconoscibile e coordinata, ci sono spesso spazi inutilizzati che dovrebbero invece essere riorganizzati per essere produttivi. Molti sono rimasti ancorati a vecchi retaggi e schemi e questo non è più il tempo di stare a guardare! Quello che abbiamo fatto noi è stato mettere insieme diverse professionalità per tracciare delle indicazioni capaci di dare delle risposte concrete».

Che tipo di proposte sono venute fuori?

«Abbiamo affrontato l’idea di progettazione e organizzazione sia dal punto di vista architettonico, che dal punto di vista manageriale. Partendo dai temi contingenti sono venute fuori diverse proposte: tutto dovrà cambiare! Anche i professionisti sono chiamati a rivedere i propri ruoli; in questo contesto per esempio la figura dell’architetto è centrale. C’è da revisionare completamente gli spazi che devono essere riprogettati in funzione del giusto equilibrio tra social distancing, igiene, sostenibilità e nuove opportunità di business, senza mai trascurare l’immagine che deve essere coordinata tanto online quanto offline. Il tallone di Achille di un po’ tutti gli imprenditori che non ancora hanno ben chiaro quanto il branding e un’identità chiara incida sull’opinione che le persone si fanno delle nostre attività. Mettendo quindi insieme, i loro e i nostri punti di vista, abbiamo progettato nuove planimetrie e camere campione che ottimizzano spazi, costi e velocità del lavoro. La parola chiave è flessibilità, per gli alberghi soprattutto sarà necessario sviluppare un uso più proficuo degli spazi per prendere in seria considerazione il coinvolgimento degli utenti locali, specie nei periodi di bassa stagionalità».

Come possono fare? Come deve essere l’hotel del futuro?

«Valorizzando quello che hanno e ripensando quello che non funziona, che è diventato desueto ma impegna. Introducendo il concetto di multi-funzionalità. Mi spiego, la stanza dell’hotel oggi può diventare qualsiasi cosa in day use o ad ore. Penso a un corso yoga, piuttosto che, a un freelance che ha bisogno di uno spazio privato per lavorare e ricevere persone. E allora, perché non dare nuova vita a questi luoghi disegnando nuove opportunità di business? Tutto questo chiaramente si può fare solo introducendo arredi flessibili, modulabili all’occorrenza, chiamati a svolgere più funzioni. Penso ad elementi a scomparsa e arredi sospesi, in grado di facilitare i tempi di sanificazione e pulizia. Anche le grandi hall, ormai non hanno più senso di esistere, ma possono essere utilizzate per un uso più proficuo. Creando i giusti percorsi è possibile ricavare spazi multifunzionali, accessibili al pubblico, con un arredamento che coinvolga l’ospite in sicurezza e aumenti l’efficienza dei servizi e delle esperienze. Insomma, attivando nuove procedure e con l’utilizzo di nuovi layout, è possibile rendere un’attività più redditizia, combinando funzionalità ed estetica».

Mi ha molto colpito un tuo post su Instagram in cui dichiari che oggi la soluzione per chi vuole aprire un negozio fisico, ma si sente bloccato dall’incertezza del futuro è il temporary o pop-up store. Spiegaci…

«Il temporary store esiste già da un po’, non solo nella veste classica del negozio ma anche con elementi mobili o furgoncini. Nascono e si sviluppano soprattutto all’estero, specie negli aeroporti, dove moltissime aziende hanno i loro corner a tempo. Prima di questa crisi venivano pensati come “una tantum”, un’operazione di marketing in determinati periodi dell’anno invece adesso, dai nostri test, sappiamo che possono rappresentare la soluzione per chi: vuole lanciare e testare nuovi prodotti, uscire dallo spazio virtuale dell’online per dare un’immagine fisica al brand e offrire un’esperienza tattile, semplicemente fare un business alternativo. È un format suggeritissimo in questo periodo di crisi, un’idea valida che permette di tagliare tantissimi costi di partenza e conferire un’immagine forte del proprio prodotto o servizio».

È per tutti? Che vantaggi ha?

«Assolutamente sì perché è una soluzione low budget. Gli arredi e gli interni devono avere una durata limitata, quindi, si può lavorare con materiali molto semplici, naturali, di riuso ed economici. La foto in alto per esempio è il temporary di Rue des Mille a Salerno, una gioielleria realizzata semplicemente con forex, neon, tappeti, specchi rivestiti e pampas sulle pareti che fanno scena. Un’immagine total pink pensata per le millennials che si rivolgono al brand toscano di gioielli. Il pop-up è un approccio completamente diverso, non è un semplice negozio, ma è l’immagine del brand resa fisica e posizionata all’interno di uno spazio, con un look ancora più forte e urlato in quanto bisogna concentrare tutto il messaggio, da lasciare al cliente, nel poco tempo che si ha a disposizione. Ma questo tempo, se si sfrutta al meglio, può essere molto più soddisfacente di un negozio che sta fermo da dieci anni e non ha più appeal».

I social, ai quali tu attribuisci molta importanza, che relazione hanno con il design e la cura degli spazi? Credi vadano a braccetto? Quanta importanza c’è tra immagine coordinata off-line e online?

«L’immagine coordinata oggi è tutto. Bisogna che ci sia coerenza tra il mondo online e quello offline altrimenti tradisci le aspettative e la promessa fatta al tuo cliente o potenziale tale. Rischi di confonderlo e, per non confonderlo, devi avere prima tu le idee chiare su quale identità hai, a chi vuoi rivolgerti e fare in modo che tutto, compresa la tua vision, traspaia ovunque: dall’arredo, che è pur sempre veicolo di un messaggio, alla community in rete. Oggi bisogna comunicare, le persone vogliono sapere chi c’è dietro, cercano la storia. Il marketing passa attraverso l’umanizzazione del brand, questo non vuol dire che per funzionare bisogna snaturarsi ed essere ultramoderni, al contrario, anche il bottegaio e il piccolo artigiano possono valorizzare ciò che già possiedono, puntare alla propria unicità, purché lo facciano!».

E come si fa? Come si rende un negozio interattivo, instagrammabile e accattivante? Chi non ha grossi budget in questo momento cosa deve inventarsi?

«Per avere un look instagrammabile non c’è bisogno di ristrutturare l’intero negozio. Basta una parete che entri a far parte dello storytelling aziendale o un angolo che sappia catturare l’attenzione. Oggi il negozio deve offrire qualcosa di più. Se posso comprare tutto online senza scomodarmi, perché devo venire da te? Qui entra in gioco il concetto di customer experience che concepisce il retail non più come semplice luogo fisico, bensì come un luogo dove “vivere” esperienze, eventi e attività sempre più ricche e fruire dei prodotti in vendita. Un po’ come fa Apple che, in ogni suo store, invita ad immergersi nei suoi prodotti in un contesto d’uso reale. Anche il negozio fisico ha bisogno di cambiare pelle perché sarà sempre più un luogo dove non si consuma tempo, ma lo si valorizza».

Insomma tutti gli indizi ci fanno capire che avere un architetto è una conditio sine qua non per chi vuole fare impresa.

«Non per portare acqua al mio mulino ma “sì”. Ed è quello che cerco di far capire sui mie social, molte persone pensano che siamo figure non indispensabili, “luxury” che rischiano di far spendere di più e complicare le cose e, in parte, è anche colpa della mia categoria che, negli anni, ha lavorato più al servizio del proprio ego che delle reali esigenze delle persone. Fortunatamente le cose stanno cambiando, il pregiudizio lentamente si sta affievolendo e le persone stanno iniziando a capire che rivolgersi a un architetto non solo non è sempre dispendioso come può sembrare, ma al contrario, come ci siamo detti finora, consente di attivare nuove idee, ammortizzare e ottimizzare costi e spazi, con ricadute proficue per qualunque business».

Ultima domanda, che periodo stai vivendo come professionista? La tua categoria come sta affrontando la crisi considerato che camminate al fianco degli imprenditori?

«Io ho la fortuna di aver sempre lavorato anche nel ramo house ed è quello che adesso sta trainando il settore. Il lockdown ci ha dato l’opportunità di vivere maggiormente le nostre case e di non sentire più “nostro” uno spazio domestico progettato soltanto per rientrare la sera. Il tempo ci ha permesso di notare tutti quei difetti dovuti alla mancanza di cura e, questo, ha stimolato molte persone a riorganizzare anche gli spazi del proprio nido. Se non fosse stato così, probabilmente, sarebbe stato un periodo duro anche per me».

Di Daniela Iavolato